giovedì, novembre 17, 2005

XXXVI. Storia (in soggettiva) di un divoratore di anime.

Stavo parlando, ma l’unico suono che riuscivo a sentire erano le mie urla.
Ho provato a parlare controllando il tono della voce. Urla.
Come non ne avevo mai sentite. Come non avevo mai creduto di poterne emettere. Quelle urla che raschiano le tonsille e fanno vibrare le corde vocali spasmodicamente.
Ma anche quelle urla che non riescono a nascondere la vibrazione liquida della gola che si emette quando si piange. Non piangevo, di questo ne sono certo. E forse quelle urla violente manifestavano l’incapacità di piangere dei miei occhi. Urla di nervi, le mie.
Il senso delle mie urla è stato il pianto represso.
Il senso di un pianto è il dolore.
Io percepisco (maledettamente percepisco!) il dolore altrui.
Quindi, le mie urla di pianto represso poggiano su di un dolore non mio.
Ma anche mio, sì, anche mio, perché il reprimere le lacrime era portato da nulla altro se non dal tipico ribaltarsi delle proprie armi in proprie ferite. Aggredivo. Per difesa aggredivo. Non piangevo perché mi difendevo: difendevo le mie ragioni ma difendendomi ferivo.
E i dolori delle sue ferite potevo sentirli benissimo. Per questo urlavo, e per questo le mie urla nascondevano lacrime.
Ho devastato. Ho esecrato e dilaniato. E ho sentito tutto. Stavo divorando la mia anima in quella sua. Mordevo e gridavo.
Mordevo.
E gridavo.
Ho lacerato me stesso. Fortemente spero che la chiave di volta di questo male che m’assedia non anche sia nelle sue mani.

1 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Mi spiace andrè...Un saluto

giovedì, novembre 17, 2005 11:35:00 PM  

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