venerdì, marzo 16, 2007

LIII. Allora fallo.

Ti sei mai posto le seguenti domande?

1. Stai scappando o stai inseguendo?
2. Stai crescendo o stai invecchiando?
3. Preferisci pensare al posto da dove vieni o al posto dove vai?
4. Perdi tempo sognando o sprechi il tuo tempo con i ricordi?
5. Desideri essere più intelligente di quanto sei?
6. Uno stupido desidera essere più intelligente di quanto è?
7. Sei quello che hai fatto o quello che farai?
8. E se domani ti pentirai di quello che hai fatto, cosa sarai?
9. E se domani non riuscirai in quello che vuoi fare, cosa sei?
10. Ti poni domande o te le fai porre dagli altri?

Se non ti sei mai posto le precedenti domande, allora fallo.

venerdì, febbraio 02, 2007

LII. Jude Fawley, scalpellino.

“What a view of life he must have, mine or not mine!” he said. “I must say that, if I were better off, I should not stop for a moment to think whose he might be. I would take him and bring him up. The beggarly question of parentage, what is it, after all ? What does it matter, when you come to think of it, whether a child is yours by blood or not ? All the little ones of our time are collectively the children of us adults of the time, and entitled to our general care. That excessive regard of parents for their own children, and their dislike of other people's, is, like class-feeling, patriotism, save-our-own-soul-ism, and other virtues, a mean exclusiveness at bottom”.

From “Jude the obscure”; Thomas Hardy, 1895.



“Che visione della vita può avere, che sia mio o no!” disse. “Ammetto che, se mi trovassi in condizioni migliori, non mi fermerei un momento a domandarmi di chi sia figlio. Lo prenderei e lo terrei con me. La misera questione della discendenza, cos’è, in fondo? Che importa, a pensarci, se un bambino discende dal tuo sangue o no? Tutti i piccoli dei giorni nostri sono collettivamente figli di noi adulti di oggi, e hanno diritto alle nostre cure. Quell’eccessivo riguardo dei genitori per i propri figli, ed il loro disprezzo per i figli degli altri, è, come il sentimento di classe, il patriottismo, il «salva le nostre anime», ed altre moralità, uno squallido esclusivismo in fondo.


Da “Jude l’oscuro”; Thomas Hardy, 1895.

martedì, gennaio 23, 2007

LI. ...

Sento la stanchezza nelle gambe. Qui penso di potermi stendere.
C'è troppa luce, è il caso che chiuda gli occhi.

Non ho fame.

L'aria puzza.
Non voglio tollerarla, ora smetto di respirare.



Cos'è questo frastuono? Chi sta battendo?

...è il mio cuore.



Ecco; l'ho fermato.


Che silenzio...



Non ho più voglia di pensare.



...

domenica, gennaio 21, 2007

L. Io sono qui, ma ero bimbo ovunque.

Ero ovunque quando venni al mondo ed in me per anni vissero i dolori di ognuno.
Vissi presto quel dissonante stato che s'accompagna al sentirsi indietro e sprovveduto; in ritardo ad ogni importante scadenza emotiva. Mi vedevo aggredito, poi, dalla cecità spirituale più tenace ed ostinata (ma era forse l'inaccesibilità per me del registro del mondo, e per il mondo del mio), sentendomi tra gli altri come incedendo al buio, a braccia protese, cercando e pur temendo di tastar qualcosa di insondato.
Vissi in questo modo un numero di situazioni che solo oggi riconosco come stato stabile della mia essenza di persona in mezzo alle altre: prima lo credevo carenza di maturità, ora vedo disinteresse esistenziale.
Ingenuo, preziosamente innocente, irrimediabilmente e dolcemente sprovveduto.
Indifeso sistematicamente.
A tutte le carenze del carattere e della presenza dello spirito ho sempre tentato di sopperire con il ragionamento (dove mancava l'istinto doveva fungere lo strumento): sforzandomi di essere ricettivo per dare appiglio al mio artiglio. Non ne fui sempre capace, e lo piansi; non ne sarò sempre nel tempo, e lo temo; ma ho da questo atteggiamento ricevuto ogni subdolo regalo.
Infatti iniziai a vedere tutto quello che è irrilevante, accanto al poco di concreto: le gioie e i dolori, ma più i secondi, entravano in me senza incontrar barriere, e pur se partoriti in altrui cuori, gonfiarono e affransero il mio ad ogni istante.
Fui quindi capacissimo di sentire e sprofondare in ogni abisso esistenziale che chi mi stava intorno era capace di manifestare. Con la mia ricchezza di fresca ed ineffabile inadeguatezza a lottare, vissi i cuniculi delle esistenze altrui e trascurai i miei.
Ero a braccia aperte pronto ad accogliere.
Ed accolsi.
Ogni dolore, dei miei e di tutti gli altri, attratti dalla mia sensibilità inutile. Ogni scossone, sconfitta, aggressione e rospo che ingoiavo non bastava a saziare quel demone, più adulto di me, che mi portavo dentro e che mi trascinava nel cuore i dolori di chi mi circondava.
Iniziai a provar dispetto e affrangimento, e poi sconcerto e delusione. Poi odio.
Ogni spina nel petto m'ha reso più odiosa la vita ed ogni mattone legato al collo m'ha oppresso il respiro ed ogni pietà provata m'ha impedito il volo.
Una musica adatta vorrei che rappresentasse il senso di ogni volta che guardando indietro e rattristandomi notavo la tardiva, lampante, evidenza di ogni errore.
Vorrei delle note a scorrermi intorno e ad avvolgrmi, capaci d'ovattare ogni asprezza volitiva.
Vorrei sentirle queste note e cullarmici.
Ma m'accorgo d'esser sordo.
Tutto ciò che ho visto manifestare ingiustizia mi ha inaridito, privandomi d'ogni sogno ed ogni speme ed ha sbeffeggiato il mio orgoglio.
Ogni vecchio logoro ad elemosinare al freddo m'ha costretto a vomitare sul mio cinismo e pragmatismo morale, di cui tanto fiero mi dicevo. Guardare ciò che solamente "ingiusto" riuscivo a definire (costringendomi il pensiero ad ossequiare quegli odiati, platonicamente ideali, riferimenti universali) mi ha fatto odiar me stesso per non esser stato capace d'uccidere giusto e ingiusto, bene e male, sacro e blasfemo.
E allora un senso osceno mi pervase quando vidi nascere, pian piano, in me, negli anni, la morte dell'ubiquità emotiva con cui ero nato. Sempre più, giocando il gioco perverso della vita, avevo cementato i miei piedi lì dove si trovavano: in fondo alle mie gambe, sotto lo stomaco, ero diventato carne.
Ero rinato ormai come bestia e il bambino che ero stato era morto infine, senza più la forza di piangere.
Sento pregnantissimo l'olezzo di quel corpicino che marcisce dentro il mio petto, dove i vermi prolificano.
E' il gioco più crudele quello che ci viene imposto di giocare. Al via siamo tutto, siamo indifesi, ciechi; all'arrivo siamo odiosi e indifendibili. Questo è un gioco senza sosta che riesce sempre, prima o poi, a farci smarrire ogni briciola di spontaneità emotiva. Questo è un gioco adulto, che ci vuole adulti, fino a farci sputare sulle nostre idee e convinzioni, a farci abbattere ogni nostra costruzione, a rimangiare, rimpiangendola, ogni nostra affermazione.
Questo è un gioco che non ammette vincitori. Tutti arriviamo ultimi.
Arriviamo a credere pur se odiavamo ogni fede. Arriviamo a bestemmiare pur se amavamo un nostro credo. Diventiamo ipocriti inquisitori della falsità. Deboli, incattiviti, disillusi, miseramente rammolliti.
Ci fa rinascere in bestia questo gioco: il verme velenoso o l'orco idrofobo che sono in un solo luogo e non ovunque, che provano solo il proprio dolore e non quello d'ognuno.
Che si nutrono di quel marciume che rimane dei bambini che eravamo.

sabato, gennaio 06, 2007

XLIX. Believe in nothing, hope nothing, need nothing.



Believe in nothing, hope nothing, need nothing.

giovedì, gennaio 04, 2007

XLVIII. Morte del mio cane.

L'istante denso in cui quegli occhi vidi soccombere con crudele lentezza, sentii il mio petto svuotato d’ogni voglia d’essere al mondo: come se un vento spirasse dal mio centro; come se il vuoto tutt’intorno aspirasse attraverso i bronchi tutta la mia forza, svuotandomi i polmoni, crucciandomi le spalle, inarcandomi la schiena, rammollendomi il collo, appesantendomi le braccia; volendomi vedere piangere. In un senso d’enorme privazione ebbi d’un attimo tutti i miei pensieri trasformati; un senso pesante, d’una irreversibilità così evidente e ineluttabile da annullare ogni forma di sicurezza e completezza esistenziale.
Questo fu il mio primo incontro con la morte. Essa si manifestò con un dolore diverso da ogni altro ch’io avessi mai provato prima: più sordo, più ottundente, più disorientante. Fu quello il dolore che mi parve ingiusto nel più totale ed esauriente dei significati. Tutti i dolori ch’avevo vissuto fino ad allora erano stati miei, li portavo, li costruivo, li articolavo, in qualche astruso modo n’ero il genitore unico e completo. E ciò che fu quella sera di natale non ebbe molto a spartire con quel tipo di dolore. La morte, in me, nacque allora.

sabato, maggio 13, 2006

XLVII. Deltaroadlight.


Deltaroadlight. Posted by Picasa
Saluto.
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