giovedì, aprile 07, 2005

VIII. L'Io altro.

Allora, sentite questa, e prendetela in termini esistenziali.
Io mi caratterizzo (il mio Io si caratterizza…) per l’immediatezza percettiva dell’esserci. L’esserci è l’insieme delle relazioni che si stendono tra noi (il nostro Io) ed il mondo.
Quindi, “l’Io altro” non esiste.
Badate, in termini logico/ontologici potrebbe anche esistere (pur essendo questa una questione indicibile) ma, in termini esistenziali, “l’Io altro” è un concetto contraddittorio.
Rinviando ad un post futuro (forse) una analisi della possibilità di una riconduzione “ad uno” (o, quanto meno, di una potenziale commensurabilità) di una prospettiva esistenziale e di una prospettiva logica, voglio esplicitare come la mia conclusione scaturisce dalle assunzioni che ho posto.
Se l’Io è l’immediata percezione dell’esserci, significa che esso è un connotato “interno”, nel senso che non è possibile una rilevazione “esterna” di un Io diverso dal proprio. Se anche fosse possibile attuare una intersezione delle coscienze (la coscienza è il dominio dell’Io, quindi contiene l’esserci, la relazione intercorrente tra l’Io e l’esserci che lo caratterizza è, appunto, la coscienza), questa si manifesterebbe unificando i contenuti coscienti di due esserci, ma se due esserci sono contenuti in un unico dominio cosciente, fanno riferimento ad un unico Io, cioè ad un’unica unita appercettiva. Quindi, pensare un “Io altro” è contraddittorio: un Io non può rilevarne un altro e se prova ad immaginarlo non può che caratterizzarlo come il “proprio Io”.
Credo che l’impossibilità di concepire un “Io altro” sia una connotazione dell’Io stesso, l’impossibilità esistenziale di un “Io altro” risulta dalla struttura stessa dell’Io. Quindi, è erroneo parlare del “mio Io”, in quanto un “Io altro” non esiste.

C. v. d.

lunedì, aprile 04, 2005

VII. La difficoltà di essere normali (soggetto suggeritomi da mia cugina Valentina).

Mia cugina Valentina mi ha proposto un argomento, che ho riportato come titolo del post che state leggendo. Ci ho riflettuto un po’. Di seguito riferisco i risultati della mia riflessione.
Se, davvero, fosse difficile essere normali, molto probabilmente, sarebbero poche le persone capaci di esserlo. E allora accadrebbe che normali sarebbero solo gli appartenenti ad una ristretta cerchia di eletti. Una “ristretta cerchia di eletti” sarebbe composta da individui “normali”… Mi suona male… Solo gli “eletti” sarebbero “normali”…
No, non va, non funziona così. Non credo sia difficile essere normali.
Mettiamola così: i “normali” non sanno che fare dalla mattina alla sera e nel loro cervello accade talmente poco di interessante, che ad essi rimane tutto il tempo di pensare ad inutili banalità di ogni tipo. I “normali” non hanno la minima idea di come sia costituito il loro rapportarsi agli altri, ed al mondo in generale. Essi guardano gli altri (“normali”) e li giudicano, per lo più presuntuosamente, creando uno stereotipo di “normalità”, generato per contrasto rispetto a quello che non gradiscono nel mondo e negli altri, senza analizzare motivazioni o situazioni e quant’altro. Essi giudicano la normalità e, male intendendola, ne trovano un significato “esterno”, “deviato” e “deviante”. Ma, specialmente, “deviante”: il concetto di “normalità”, prodotto dai “normali”, è creato eliminando dalla “normalità” gli aspetti che ai “normali” non vanno bene, si badi però, solo quando questi aspetti sgradevoli li colpiscono in prima persona, non anche quando essi stessi adottano atteggiamenti che manifestano aspetti della “normalità” sgraditi ad altri. Al che questo concetto viene predicato e diffuso proprio da colui che, in quanto “normale”, non ne fa parte; tale concetto viene imposto come il valore di “normalità” sociale, e, tramite la minaccia della emarginazione, il concetto di “normalità” così costituito tende a “deviare” le persone “normali” e a farle diventare paranoiche, ansiose, insoddisfatte e quant’altro.
Chi parla di “normalità”, proponendone un significato, è sempre convinto di ricadere nella “normalità”, ma non è mai conscio di non ricadervi affatto.
È “normale” che io faccia “questo e quest’altro”; perché? Perché sono io a farlo e, guidato dall’istinto e dalla parzialità cieca tipica dell’essere umano, non sento il bisogno di spiegarmi la valenza sociale del mio agire. Non è “normale” che tu faccia quello stesso “questo e quest’altro”; perché? Perché sono io a subirlo e, guidato dall’istinto e dalla parzialità cieca tipica dell’essere umano, percepisco immediatamente come prevaricante la valenza sociale del tuo agire.
Di “normalità” non si deve parlare, questo è quanto.
Grazie Valentina.
Free Guestbook from Bravenet.com Free Guestbook from Bravenet.com
IoSo (You Do Not) FORUM ForumFree.net
IoSo's Friends
free online casino game

casino online

Tutto il contenuto di questo blog è soggetto a copyright.